Roman Polanski: a Film Memoir

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Roman Polanski: a Film Memoir

Roman Polanski: a Film Memoir

«Ci sono due cose al mondo che mi piacciono veramente. La seconda è girare un film.»

Roman Polanski

il film

Roman Polanski: a Film Memoir è una corsa lunga ottant’anni attraverso il Novecento, dai rastrellamenti nel ghetto di Cracovia agli arresti domiciliari sulle Alpi svizzere passando per il Sessantotto e Hollywood, l’assassinio della giovane moglie Sharon Tate e il premio Oscar, la fama e la vergogna. Il racconto tutto d’un fiato di una vita sempre sotto i riflettori, al di qua e al di là della macchina da presa.

 

il libro

Pianeta Polanski a cura di Giacomo Mondadori
Una panoramica non convenzionale sull’opera di un grande maestro. Il cinema di Polanski visto da otto scrittori italiani: Flavia Piccinni (Il coltello nell’acqua), Alberto Garlini (Cul-de.sac), Francesca Scotti (Rosemary’s Baby), Sebastiano Mondadori (L’inquilini del terzo piano)Martino Gozzi (Frantic), Cosimo Calamini (The Ghost Writer), Sabrina Paravicini (Carnage).
Il libro include anche le conversazioni di Roman Polanski con Andrew Braunsberg e un contributo critico di Emanuela Martini sul film Il Pianista.

trailer

ROLAND TOPOR

Il film è tratto dal suo romanzo Le locataire chimérique

 

PIANETA POLANSKI /EXTRA

L’inquilino del terzo piano

di Sebastiano Mondadori

 

Prima di venerdì scorso non avevo mai stretto la mano a un nano. A differenza di quella di un bambino, che è proporzionata nella forma e ha una consistenza paffuta, una promessa di futuro che la piccolezza contiene in nuce, la sua aveva un che di monco, come se in quel fugace contatto in cui entrambi abbiamo fatto a gara per sciogliere la stretta il più velocemente possibile – lui per abitudine, io per ribrezzo – quell’uomo mi avesse svelato la sgradevolezza del suo segreto, racchiuso in un’appendice carnosa più tozza che flaccida, eppure incompleta nel futuro che non è mai arrivato. Ecco, Trelkowski, con l’espressione già colpevole del volto di Roman Polanski, finiamo per tenerlo alla larga come quel nano. Un uomo da emarginare, vittima consapevole di una cospirazione che coincide con il suo destino.
È pedante fin da subito. Nella sua condizione di straniero è obbligato a spiegare più del dovuto. Quante domande e quante spiegazioni solo per affittare un appartamento da cui si è buttata di sotto la precedente inquilina, ricoverata in ospedale in gravissime condizioni. Si chiama Simone Choule, nessuno conosce la ragione che l’ha spinta a tentare il suicidio. Basta sporgersi dalla finestra per verificare dove tre piani più in basso il corpo della ragazza ha sfondato una tettoia di legno. Ci sono gli operai al lavoro per ripararlo. Se si guarda invece dall’altra parte del cortile, proprio di fronte allo sguardo di Trelkowski, ecco la finestra del bagno in comune. A Parigi di questi tempi non è facile trovare qualcosa di meglio.
Glielo dice per prima la portinaia Shelley Winters. Ostile senza ragione, o a ragion veduta, l’ha dimenticato nella ripetizione di tutti i giorni sempre uguali. Lei che controlla le entrate e le uscite dallo stabile, e pulisce sempre svogliatamente qualcosa, è abituata a vedere dal basso l’occhio della tromba delle scale: il grande occhio in cui si sperdono le verità del Polanski regista per lasciarci soli con i presagi di Trelkowski.
L’ostilità diventa tensione nell’incontro coi padroni di casa. Si fatica a ricostruire sui lineamenti induriti dalla vecchiaia, le labbra assottigliate in una smorfia di rimprovero al mondo, il sorriso sardonico del Melvyn Douglas che fece ridere per la prima volta Greta Garbo in Ninotchka. Ci si impiega un po’ a collegare la moglie diffidente con la Jo Van Fleet della Valle dell’Eden, dov’era truccata da vecchia madre di James Dean.
Anche i ricordi cinematografici sono trafugati dalla nuova realtà in cui le certezze vengono assediate dai primi segnali discordanti, quasi che dietro un volto noto prenda forma l’ombra di un altro volto e quello che abbiamo davanti agli occhi, un tempo così nitido, venga lentamente posseduto dal suo lato oscuro. Il problema, andando avanti, sarà distinguere lo sguardo di Trelkowski dal nostro, per non sprofondare nell’ansia persecutoria che porta Polanski alla follia e condanna lo spettatore a una domanda a cui mi rifiuto di rispondere: è esistita veramente Simone Choule?
Sembrerebbe di sì, quando Trelkowski accompagna all’ospedale l’amica Stella. Che è Isabelle Adjani a poco più di vent’anni. Un miracolo di serietà e frivolezza. Lo sguardo serio della giovinezza davanti al dolore, le lacrime che non offuscano l’ardore di blu dietro un paio di occhiali troppo grandi, nella preoccupazione per l’amica fasciata di gesso come una mummia. Le labbra frivole di parole scontate da zittire di baci.
È esistita veramente Simone Choule? Quando Trelkowski le si avvicina, dalla mummia di gesso si intravvedono soltanto due occhi terrorizzati e una bocca che si spalanca in un urlo lancinante. Non ci sono dubbi, stavolta. L’urlo è rivolto proprio a lui.
Sullo schermo del cinema scorre un film di kung fu con Bruce Lee. Stella e Trelkowski si sono rifugiati lì dopo la visita all’ospedale. Nelle sue titubanze un po’ sprovvedute, un difetto acuito dai limiti della lingua straniera (è polacco) che lo rendono verboso e ce lo fa apparire un po’ stupido, Trelkowski non si merita le attenzioni di Stella. È lei che gli allunga la mano sui pantaloni e comincia a strofinarla sull’uccello. E quando Trelkowski la bacia, e i due si avvinghiano in una goffaggine di effusioni, diventa impossibile non odiarlo.
Il mio odio per Trelkowski è anche un po’ colpa del nano di venerdì. È il nano travestito da Polanski a irrompere nel mio disgusto mentre ansima addosso a Stella in un muggito di piacere: con le due mani monche la imprigiona in una stretta senza scampo, e in quei minuti di aberrazione umana Isabelle brucia trentasei anni di vita. Adesso la mostruosità del tempo è compiuta. Se da una parte cerco di farlo tornare indietro per ricordare la giovinezza nei volti avvizziti di Melvyn Douglas e Jo Van Fleet e in quello stremato di Shelley Winters, dall’altra lo voglio fermare per scacciare dalla mente il gavettone di porcellana in cui si è fossilizzata la bellezza di Isabelle Adjani oggi: la riconosco solo nell’ardore di blu degli occhi, dalle labbra rigonfie di risentimento arrivano solo parole inutili.
Purtroppo non sono riuscito a trovare una versione italiana di Le locataire chimérique, il romanzo di Roland Topor da cui Polanski ha tratto il film insieme a Gérard Brach, sua spalla anche in una delle più felici avventure grottesche, quel Che? del 1972 girato nella villa di Zeffirelli sulla Costiera Amalfitana forse soltanto per mostrare il culo nudo di Sydney Rome in mezzo a un bestiario di personaggi nonsense. Allora sono ricorso alle sue illustrazioni di Pinocchio per trovare un indizio, un altro indizio con cui complicare ulteriormente il mistero, visto che L’inquilino è un accumulo di indizi che non si elevano mai al rango di prova.
Ce n’è una che fa al caso nostro. Ritrae di profilo fino alla vita la Fata Turchina nuda che bacia Pinocchio. È un bacio casto, a bocca chiusa. Solo che Pinocchio, evidentemente eccitato, forse mente al suo desiderio. Rifiuta l’impulso di portarsi a letto la donna pura che gli ha salvato la vita. Benché sia una bugia a fin di bene, come del resto lo sono tutte le bugie ipocrite, il naso gli si allunga lo stesso, e trafigge la bocca della Fata per sbucare fuori dalla nuca.
Lasciando perdere i toni melliflui e il suo fare maldestro, Trelkowski ha la tendenza a mentire, più per viltà che per calcolo, e da Pinocchio eredita un’anarchia che rende subdola. Da quando ha cominciato a dire a Stella che conosceva Simone Choule non ha smesso più, lo dice a tutti, arrivando persino a consolare per un’intera notte un amico della ragazza suicida che si è presentato alla porta.
Ogni ora ha i suoi presagi, bisogna sapersi affidare alle loro insidie. È quasi ingenuo e allo stesso tempo suscettibile Trelkowski, una figura kafkiana solo nell’accettare a priori una colpa che ignora (ma dietro quella maschera da esule reietto potrebbe nascondersi il nano di venerdì scorso). Prova a ribellarsi blandamente alle persone che gli vogliono imporre le scelte della sua nuova identità. Adesso che Simone è morta, può trasferirsi nell’appartamento rimasto libero. Per tutti, a cominciare dal barista dall’altro lato della strada, è colui che ha preso il posto di Simone Choule. Così deve ordinare anche lui la cioccolata calda e fumare Marlboro.
Al funerale di Simone ci va solo per rivedere Stella. Durante la predica, la voce del prete assume un tono apocalittico, si fa cupa, sgraziata, accusatoria. La cruda descrizione di un cadavere in putrefazione non è più rivolta alle persone radunate in chiesa, loro stanno ascoltando altre parole. Quel rimprovero privo di compassione è tutto per lui, come si permette di violare un luogo sacro? (Col senno di poi, lo spettatore potrà dire che Trelkowski era già morto: ma mancano le prove.)
La nuova vita nel condominio parte subito male. La festa organizzata da Trelkowski viene bruscamente interrotta da un vicino indispettito dalla confusione. Di notte si dorme, non si fa rumore. Anche se di notte la casa è popolata di rumori sinistri. Passi incessanti, spostamenti di mobili, voci senza padroni. Trelkowski è costretto a congedare gli amici, quasi tutti colleghi di un imprecisato ufficio tecnico dove svolge un anonimo lavoro di un qualsiasi impiegato, e due donne dai facili costumi.
Ogni ora ha i suoi presagi, guai a perdersi nelle loro insidie. La cospirazione è cominciata, e Trelkowski ne è consapevole: «Vogliono che mi uccida».
I condomini gli bussano alla porta a tutte le ore della notte. Una donna anziana lo incolpa di guidare una congiura contro la povera figlioletta bionda con una gamba di legno che camminando disturberebbe la quiete notturna. Ma lei non c’entra, e mentre la figlioletta bionda fissa imperterrita l’incredulo Trelkowski, la vecchia accusa a sua volta un’altra donna, quella sì che passa la notte a spostare mobili.
I nemici aumentano, e così l’impotenza di difendersi dai loro fantasmi. Si nascondono dietro le altre porte o nel suono di nomi a cui non sa dare un volto, si manifestano nei rimproveri sempre più assillanti del padrone di casa, nel disprezzo ormai dichiarato della portinaia. E poi lo fissano. Sì, nel bagno di fronte alla sua finestra, se ne stanno in piedi, immobili per ore. Come un voyeur smascherato, Trelkowski li spia con il binocolo che ingrandisce quell’immobilità senza vita. Guardare e essere guardato, si sente violato nell’intimità della camera moltiplicata dagli specchi. Il disagio accresce. Non è più sicuro nemmeno quando chiude la porta a chiave. Se si avvicina alla finestra, in una rivisitazione colpevole del James Stewart della Finestra sul cortile, impossibilitato a fuggire anche se non sta su una sedia a rotelle, si sente scoperto. Se guarda di fronte a sé, lo spiano dal bagno. Se guarda in basso, gli operai che riparano la tettoia sfondata da Simone Choule gli rivolgono un’occhiata canzonatoria. Sempre lì a ronzare come becchini eccitati.
Ignoriamo i pensieri contro la notte di Trelkowski, lo vediamo camminare la mattina sulla sponda della Senna dominata dalla Tour Eiffel in una Parigi senza salvezza. Le notti insonni lo perseguitano. Il pallore sudato con la barba sfatta del viso di Polanski, il ciuffo appiccicato alla fronte, una febbre che gli esalta lo sguardo allucinato. Intanto pullula la vita segreta degli oggetti. C’è un dente di Simone avvolto nell’ovatta rintanato in un buco della parete, prima o poi dovrà metterci anche un suo dente. Nell’armadio è rimasto un vestito nero a fiori. Adesso ci vogliono lo smalto e il rossetto, e poi va comprata una parrucca bruna, anzi rossiccia: così potrà finalmente impersonare Simone Choule.
La notte in cui raggiunge il bagno per vomitare, vede se stesso che lo spia dalla sua camera. Ormai ciò che vede Trelkowski non coincide più con quello che vediamo noi. Ogni tanto Polanski ci svela le sue visioni (ma così vanifica l’aura di inquietudine, nell’incombenza del perturbante che si nutre di indizi e non di prove), e appaiono i volti deformati dei condomini, le visioni deliranti di un sabba nel cortile con la bambina zoppa che indossa una maschera di Trelkowski, le prove inconfutabili del complotto che coinvolge tutti, anche la coppia di anziani (quanti vecchi in questa storia, l’unico altro bambino si becca una sberla in pieno viso) che lo investono con l’auto. Persino Stella da cui credeva di avere trovato rifugio.
Basta, hanno vinto loro. A Trelkowski non resta che compiere il proprio destino. La tettoia di legno del cortile è stata riparata. Vestito da Simone Choule, si butta dalla finestra. È ancora vivo, si rialza attorniato dal corteo di congiurati, tutti i nemici al suo capezzale – è arrivato anche il barista. Si deve difendere, ha ancora la forza di risalire le scale fino al terzo piano. Si è liberato della parrucca, sono false le grida che gli intimano di non buttarsi di nuovo, è quello che loro vogliono in realtà. Si butta una seconda volta.
È esistita veramente Simone Choule? La domanda diventa ineludibile, guardando con gli occhi di Trelkowski col corpo fasciato come una mammia sul letto d’ospedale che assiste impotente alla disperazione di Stella e alla visione di se stesso accanto a Stella con un sacchetto di arance in mano. Adesso è l’altro Trelkowski che gli si avvicina, gli dice qualcosa. Il Trelkowski in fin di vita non può parlare, la macchina da presa stringe sulla bocca che si spalanca in un urlo lancinante.
Invece di chiudersi, la circolarità della vicenda si moltiplica nell’eco della domanda su Simone Choule per disperdersi nella miriade di incalcolabili conseguenze. Sta a noi decidere a quale storia credere, certi che una sola interpretazione non basterà ad abbracciare le ombre che inquinano i tentativi di ricondurre i fatti a una realtà con una successione temporale attendibile. Perché i fatti, tutti i fatti, sono declassati a indizi. Si può rivestirli di teorie sul senso di colpa, sugli svarioni erotici sul tema del doppio e persino sulla reincarnazione. Per me diventano reali solo quando sogno il nano di venerdì scorso che non vuole smettere di stringermi la mano, e ha la faccia di Roman Polanski.
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